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La chimica della plastica

 

 

 

L’Unione Internazionale di Chimica Pura e Applicata (IUPAC) definisce le materie plastiche “materiali polimerici che possono contenere sostanze finalizzate a migliorarne le proprietà o ridurne i costi”. Questa, di fatto, è la definizione commerciale, ma dal punto di vista chimico che tipo di materiale è?

La plastica è un composto organico, ossia le molecole dei materiali plastici sono costituite da atomi di carbonio (C) che si legano – con legami covalenti – principalmente ad atomi di idrogeno (H), ossigeno (O) e azoto (N). Queste molecole si legano insieme formando catene di macromolecole, più o meno lunghe e ramificate, chiamate polimeri. Sono materiali caratterizzati da notevole plasticità oltre che da versatilità di prestazioni e facilità di lavorazione. A differenza di molte sostanze organiche, la plastica non si trova in natura: viene sintetizzata artificialmente a partire da risorse naturali come il gas, il petrolio e suoi derivati.

 

 

 

 

Come si fa la plastica?

 

Questa macromolecola lineare, simile ad una catena, formata da monomeri (i singoli anelli della catena), è prodotta a partire dalla lavorazione dei combustibili fossili e dei loro polimeri: propilene, etilene, butadiene e stirene.

Petrolio e gas sono idrocarburi, ossia sostanze organiche polimeriche composte esclusivamente da carbonio e idrogeno. Per arrivare alla plastica è necessario scomporli nei propri elementi, questo è possibile grazie a un processo chiamato cracking, durante il quale le lunghe catene degli idrocarburi vengono spezzate.

Esistono due tipi di processi di produzione della plastica: polimerizzazione e policondensazione, che avvengono con l’aiuto di catalizzatori. Nel primo caso, monomeri come l’etilene e il propilene vengono legati tra loro rimanendo intatti; nel secondo, i monomeri non vengono semplicemente sommati, ma “condensati” eliminando molecole di acqua o metano.

 

 

E le bioplastiche?

 

Il termine “bioplastiche” riunisce in sé più significati e il suo utilizzo spesso genera confusione. L’utilizzo del termine “bio” in ambito commerciale, infatti, finisce per aggregare sotto questo questa definizione materiali di tipo molto diverso. Il termine “bioplastica” è impiegato in diversi contesti con almeno tre significati diversi che, a livello industriale, possono essere posseduti anche dallo stesso materiale.

 

  • “Bio” come origine delle materie prime impiegate

In questo caso si intende l’origine delle materie prime: la bioplastica o il biopolimero sono ottenuti totalmente o in parte da materie prime di origine rinnovabile, anziché fossili (non rinnovabili). Possono essere “di sintesi” se prodotti dalla polimerizzazione di monomeri ricavati da fonti rinnovabili; oppure possono essere biopolimeri naturali, ovvero sintetizzati direttamente dagli organismi viventi, quali piante, animali, alghe, microorganismi.

 

  • Presenza di una funzionalità “bio”: biodegradabilità

Qui il prefisso “bio” indica la capacità di biodegradarsi: un esempio è quello delle bio-plastiche impiegate per la produzione di oggetti compostabili. In questo caso il termine bioplastica (o biopolimero) si riferisce a una caratteristica importante quando questo diventa un rifiuto (per esempio, sacchetti dell’ortofrutta).

 

  • Presenza di una funzionalità “bio”: biocompatibilità

Un polimero che presenta una funzionalità “bio” legata alla biocompatibilità, ha importanti applicazioni in ambito medico e chirurgico: può infatti venire a contatto con i fluidi e i tessuti del corpo umano senza procurare danni o rigetto. Questo tipo di polimeri possono essere anche bio-degradabili: nel corpo umano (polimeri bioadsorbibili).

 

 

 

Per l’attività con gli alunni:

 

  • Cosa dice la scienza: scopri altri materiali per conoscere tutti i segreti della plastica e il suo impatto sull’ambiente.
  • Mettiamoci al lavoro: attività didattiche per parlare di plastica e tutela del mare a scuola.

 

 

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